Prima di fare un’ulteriore riflessione sul tema della resilienza psicologica, vorrei partire da un estratto del libro “Rock and resilienza” di Paola Maugeri.
“Questa capacità si chiama resilienza ed è in grado di trasformarci in persone capaci di vivere la quotidianità con la consapevolezza l’assertività necessarie per una resistenza di valore.
Essere resilienti è più che resistere, significa imparare evolvere facendo dell’ostacolo un trampolino di lancio della fragilità una ricchezza della debolezza una forza dell’impossibilità una serie di possibilità.”
E’ vero che in un mio precedente articolo ho cercato di definire il costrutto della resilienza psicologica, ma è altrettanto vero che la letteratura scientifica ad oggi non riesce a definirla in maniera univoca.
Sembrava che ci fosse una maggiore concordanza sul farla orbitare intorno a termini quali “avversità” ed “adattamento positivo”: il problema è che si rischiava non soltanto di escludere eventi stressanti non catalogabili come “negativi” (matrimonio, nascita di un figlio, promozione al lavoro etc.), ma si temeva anche di astrarre questo costrutto non tenendo conto delle caratteristiche specifiche dell’ambiente di riferimento.
Nel contesto sportivo
David Flechter e Mustafa Sarkar, ricercatori dell’Università di Loughborough e della Nottingham Trent University, hanno definito la resilienza psicologica come “il ruolo dei processi mentali e del comportamento nel promuovere il patrimonio personale e proteggere l’individuo dall’effetto negativo degli stressors”.
Questa definizione, oltre ad assumere una valenza puramente psicologica, è ad oggi la più esaustiva e rievoca l’idea di una capacità che si sviluppa nel tempo all’interno di un processo d’interazioni fra l’individuo e l’ambiente, la quale protegge dagli effetti negativi degli eventi stressanti nella vita dello sportivo che ne elicitano il suo sviluppo.
Viene da domandarsi: visto che la resilienza è una capacità che può essere allenata, quali condizioni posso favorirne il suo sviluppo?
Gli stessi autori, in un articolo del 2016, hanno proposto un programma di allenamento della forza mentale (“Mental Fortitude Training”) che si focalizza su tre aree:
- Qualità personali, fattori psicologici che proteggono un individuo dalle conseguenze negative di un evento stressante, qui suddivisi tra caratteristiche della personalità, abilità e processi psicologici e risultati desiderabili;
- Ambiente facilitante, il quale influenza profondamente lo sviluppo della resilienza psicologica e, data la complessità delle interazioni individuo-ambiente, viene qui proposto tenendo conto del rapporto tra le componenti di sfida (Challenge) e di supporto (Support).
- Mindset di sfida, inteso come un insieme stabilito di atteggiamenti tenuti dall’individuo per valutare i fattori di stress e le avversità e per reagire di conseguenza ad essi.
E’ opportuno sottolineare che il programma fin qui illustrato andrebbe integrato all’interno di un piano di supporto psicosociale più ampio che includa aree come ad esempio l’intelligenza emotiva, e che questa proposta è un “work in progress” che tiene conto della resilienza psicologica sul piano individuale, sebbene esistano studi che parlano anche di resilienza psicologica di squadra.
In conclusione
la resilienza psicologica, per quanto sia permeata e idolatrata nella nostra cultura, non deve essere intesa come un palliativo per il benessere o per i problemi di prestazione agonistica. Non deve essere intesa nemmeno come qualcosa a cui bisogna aspirare in modo esasperato con il rischio di sviluppare la cosiddetta “sindrome della falsa speranza”, caratterizzata dall’eccessiva fiducia in sé stessi e da un infondato grado di ottimismo che comportano ad un dispendio di energie psicofisiche nel persistere in obiettivi irraggiungibili.
Proprio perché la resilienza psicologica non equivale a mettere a rischio la salute propria o quella altrui, sarebbe opportuno perseguire obiettivi realistici e idonei alle proprie capacità, e modificarli o rinunciarvi quando sono oggettivamente irrealizzabili.